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L'esperienza di una sconosciuta.

Anni or sono, in seguito a una catena di dispiaceri, malattie, malintesi coi familiari eccetera, decisi di morire. Non condannate le disgraziate creature che arrivano a quest’orribile scelta: chi non ha provato la sofferenza di quel momento e dei motivi che portano a questo, non può capire…

Cercai dunque di uccidermi, ma fui raccolta in tempo: anche se sembra così assurdo che ci fosse ancora del tempo. Quando mi fui ripresa infatti il direttore del reparto, che mi aveva curata fin dall’inizio, mi disse: "Signora, io ho fatto l’impossibile, ma non il miracolo. Lei era in condizioni disperate, e non l’ho salvata io, non l’ho salvata io! Lei è stata rimandata indietro…!".

Seppi, dopo, che fui in coma profondo, durato cinque giorni. Arrivai alla soglia? Penso di sì. Posso dire con certezza una cosa: durante lo stato di coma l’essere umano passa attraverso mille esperienze che sogni non sono, e neppure allucinazioni; è una vera seconda vita che ci trascina in un mondo simile al nostro, con storie fantastiche ma possibili. Il sogno è spesso nebuloso e sconnesso, mentre ciò che ho visto e sentito io è di una chiarezza incredibile, e anche a distanza di anni rammento ogni particolare di ciò che "vidi" e "vissi".

Non so quanto tempo fosse passato dal tragico gesto, ma a un certo punto fui in grado di capire e di pensare. Mi risvegliai sapendo di aver fatto qualcosa ai danni di me stessa, non sapevo però se ero viva o morta, e non ricordavo né come né perché né quando.

Affiorai in un mondo di silenzio. Mi sentii di nuovo un corpo e una mente. Non so come, ma avevo la certezza di non sognare, ma di essere consapevolmente me stessa, coi miei pensieri, i miei sentimenti, le mie sensazioni, da cui però erano escluse le preoccupazioni della vita di ogni giorno.

Ho detto corpo, ma non è esatto: il corpo, lo intuivo. Data l’assenza di qualsiasi dolore fisico, questo mio corpo era leggero, risanato, stavo insomma fisicamente bene: eppure quando dopo qualche giorno ripresi contatto con l’ambiente, quando cioè uscii dallo stato di coma, mi resi conto che in realtà questo corpo era martoriato da flebo, cannelli, catetere eccetera, perciò necessariamente dolente.

Gradatamente mi resi conto di essere in una stanza oscura che andò lentamente rischiarandosi, come se avessi fatto io l’abitudine alla penombra e potessi scorgere particolari inizialmente inesistenti. Seppi di trovarmi distesa sopra un marmo rosato e gelido, e di essere coperta da una leggera coltre. Mi vedevo, ma non dal di sopra: dal punto stesso in cui mi trovavo vedevo me stessa dov’ero… Sapevo di avere un corpo perché lo indovinavo sotto la coltre, ma mi sentivo così bene che non ne avevo la sensazione. Quella che soffriva era la mente, per il turbinio di pensieri che mi agitavano. Cercai di percepire qualche rumore, la presenza di qualcuno, ma ero sola, desolatamente sola. Aspettavo qualche cosa, qualsiasi cosa, pur di no rimanere ancora distesa, in uno stato di angoscia mentale che cresceva, cresceva. Sapevo di essere in ambiente ospedaliero, anche se la stanza in cui mi trovavo, una specie di cappella ampia e severa, di tono piuttosto sontuoso anche se spoglia, non assomigliava per niente ad un ospedale.

A un certo punto mi resi conto che una luce abbagliante era stata accesa ai miei piedi, sulla destra, accanto al gran marmo. Era un bel lampione dorato a foggia di lanterna antica, e la sua luce bianchissima si proiettava su di me, pareva illuminare solo me ed io parevo assorbirla… Aspettai ancora in quella dimensione sconosciuta, e solo la luce del lampione mi dava un pò di conforto.

A un certo punto mi parve che nella luce ci fosse un volto maschile, giovane, pallido, un viso di luce, con occhi neri, severi ma amichevoli e pieni di comprensione. E questi occhi mi fissavano, mi fissavano. Io comunicai mentalmente con quell’essere, e lui mentalmente mi rispose. Fu una lunga conversazione, senza parole. Aiuto! Chiedevo, aiutami chiunque tu sia. Stai calma, ferma e abbi fiducia, mi rispondeva il volto nella luce. Ma ho paura, dove mi trovo? Sono morta o viva? Zitta, zitta, calmati…

Da qualche parte mi giungeva un rumore crescente di voci, molte voci che sembrava discutessero. "Sapevo" che al piano di sopra c’era una stanza dal soffitto bianco, tipo convento: qui diverse figure ammantate di scuro stavano discutendo, di me certamente, lo sapevo. Erano figure senza volto, o con un cappuccio che copriva loro ogni fattezza, parevano dei frati. Io avvertivo le loro parole solo come rumore e capivo con la mente il senso di ciò che veniva detto. Seppi che mi stavano processando, con l’accusa che avevo trasgredito e dovevo pagare. Io però non sapevo ancora se ero viva o morta, per cui non sapevo – e non so ancora oggi – se il giudizio sarebbe consistito nel rimandarmi in terra o andare all’inferno. C’erano alcune voci che mi difendevano, ma la maggior parte mi accusava e una voce forte e profonda, che chiedeva con violenza la mia condanna totale.

All’improvviso ci fu un violento sbatter di porte, uno scalpiccio come di gente che s’affretti: le voci salivano di tono, specialmente una, la solita, più cattiva e imperiosa che mai. La scala a chiocciola che portava al piano di sopra scricchiolò sotto il peso di una moltitudine di persone, figure oscure, vecchie, ricurve, che si precipitarono su di me: io ebbi appena il tempo di gettare un’ultima supplichevole occhiata alla luce e ancora una volta seppi che dovevo sperare. Infatti quando le figure stavano per ghermirmi si fermarono, non poterono più avanzare; io sfuggii alle loro mani perché la luce le aveva fermate. Fu la luce ad assolvermi e a fermare loro, forse le illuminò sullo sbaglio che stavano facendo. In realtà la luce mi aveva assolto fin dall’inizio: infatti, pur giudicandomi severamente, aveva sempre continuato ad inviarmi pensieri di speranza. Non fu però vera assoluzione, il giudizio negativo era stato pronunciato, e io avevo dovuto sorbire fino in fondo quella paura e quell’amarezza.

Le figure ammantate dunque si fermarono, retrocessero, e io seppi (come, non saprei) che venivo assolta. Certo mi rimandarono tra i vivi. Era quello il giudizio che temevo? O forse avevo paura di salvare l’anima mia, visto che togliersi la vita è peccato mortale? Mi sono posta tante volte questo interrogativo, ma non sono mai riuscita a darmi una risposta…".